| Il titolo “Pagine di diario” non  è altro che il riportare, da storico dell’arte, quanto Lerda ha conservato in  un appunto in cui pianifica la sua (unica) personale che viene realizzata nel  maggio 1962 alla Galleria L’Immagine con quattordici opere esposte (tutti  disegni tranne un olio su tela) e una cartella di diciotto disegni. In questo  foglietto egli elenca i titoli delle opere che pensa di esporre e li fa  precedere dal titolo “Pagine di diario”. Per cui si deduce che la personale era  da lui concepita non come verifica di una produzione dell’ultimo anno, ma un  primo compendio di quasi dieci anni di attività, intrapresa dopo gli anni di  formazione a Caraglio presso Alicandri e dopo il soggiorno a Nizza. 
 L’elenco  delle opere, confrontato con quanto riportato sul cartoncino stampato per  accompagnare la mostra e completato dal  testo critico di Guasco, presenta alcune conferme e nell’operazione di scavo  compiuta da chi scrive per realizzare il primo testo monografico sull’artista,  alcuni di quei disegni della personale sono stati ritrovati e documentati nella  retrospettiva “Piero Lerda. Dal caos al gioco. Opere dal 1948 al 2007”  (presentata al Filatoio di Caraglio nella primavera 2009, a cura di I.  Mulatero), come le opere  “Pagina di  diario” (1958), “Uomini in trappola” (1961) “Interno Flash” (1961) “Grande  specchio” (1962).
 
 La critica è attenta alla  personale e non manca di riportare quanto indicato nella presentazione da  Guasco, che poi il critico elabora a partire da una autopresentazione  dell’artista redatta presumibilmente per fornire qualche elemento in più al  pubblico in visita alla mostra.
 
 Lerda pittore si conferma anche lucido teorico  di se stesso, che analizza il farsi della sua ricerca. C’è un passaggio,  nell’autopresentazione, non riportato da Guasco che è importante riprendere:  “L’uomo coinvolto in questo mondo subisce le regole del gioco in atto  rimanendone intrappolato e affascinato al tempo stesso. Queste aperture  luminose rappresentano per lui qualcosa di più di un fatto meccanico; sono in  una certa misura dei paesaggi-miti dietro i quali c’è  una nuova terra promessa di felicità, di fama, di ricchezza  facile e immediata. Penso non sia difficile affermare che questo aspetto della  condotta dell’uomo contemporaneo costituisce un problema sociale tra i più  caratteristici della nostra epoca e tra i più paradossali. Infatti quasi sempre  questo tipo di avventura si conclude in modo tragico alla stregua della  farfalla che si brucia le ali affascinata dalla candela o dalla lampada  incandescente. Tentando di rappresentare graficamente e pittoricamente queste  realtà in forma di un Diario quasi quotidiano, le pagine o le tele lasciano  avvertire di volta in volta un senso di denuncia o una pura testimonianza, una  partecipazione o un rifiuto. E’ il mio modo di essere socialmente impegnato nel  mio tempo”.
 
 Le “Pagine di diario” richiamano  i pensieri di Camus: “Dicevo che il mondo è assurdo e andavo troppo veloce; il  mondo di per se non è ragionevole, è tutto ciò che se ne può dire. Ma ciò che è  assurdo è il confronto tra questo irrazionale con l’intenso desiderio di  chiarezza, il cui richiamo risuona nel più profondo dell’uomo”, e di Sartre:  “L’uomo non è che una situazione, ma affinché questa situazione sia un uomo,  tutto un uomo, bisogna che sia vissuta e oltrepassata  verso un obiettivo specifico”, e cioè  Lerda colleziona tutta una serie di citazioni di pensieri di  Pascal, Descartes, Montaigne, Gide, Mallarmè, Baudelaire, Bataille, Nietzsche e  di quest’ultimo il basilare: “Ognuno deve organizzare il caos che trova in sé”.
 
 Scorrono secoli e secoli di  filosofia europea nell’elaborazione mentale della pittura di Lerda  innestati  al pulsare frenetico di una  società  massificata che accentua la  disgregazione di una visione dell’uomo ormai privo di una centralità, svaporato  in un intrico assurdo di frammenti segnici, lacerato in una irriconoscibile  condizione di un umanesimo allo sbando, ben espressa dalla scrittura di Kafka,  dal teatro di Beckett e Ionesco e dalla cinematografia americana che  documentava la vita spersonalizzante delle grandi città americane.
 
 L’USIS non  proiettava quei film, esulavano dalla finalità di espandere una pacificata ed  attraente immagine dell’America, ma pensiamo a “Un bacio una pistola “ (1955)  di Robert Aldrich o “Uno, due tre!” (1961) di Billy Wilder che trasgredivano il  progetto politico del piano Marshall. In quei film le luci abbacinanti dei fari  delle automobili, i bianchi e i neri taglienti e infine la figura dell’uomo,  semplice meccanismo di un ingranaggio, non paiono dissimili dai filiformi e  aggrovigliati esseri che troviamo in “Interno Flash” (1961) e “Personaggio  schermo” (1961) di Lerda.
 
 |  | Di quelle opere si legge dalla sua autopresentazione:  “Gli schermi e gli interni-flash ricorrenti nei titoli sono i protagonisti del  mondo rappresentato e si rapportano ad una realtà riscontrabile nel mondo  esterno: cinema, televisione, fotoreportages,  anche interni di studios cinematografici e televisivi, un’atmosfera quasi allucinante e artificiale  dominata dai lampi dei flashes, dalle luci fredde al neon, dei silenzi e delle  attese misurate al secondo…”.
 La critica, che non ha mancato di  rendere conto sui giornali dell’avvenimento, è però tiepida, anche se gentile.  Parla della mostra, ma ripetendo le parole di Guasco, come Scroppo su L’Unità del 3 maggio 1962, oppure  sottolineando, come Angelo Dragone (Stampa  Sera del 3 maggio 1962) la scoperta vicinanza con una letteratura di cui la  pittura è quasi in funzione illustrativa. Chi invece non ripete, è il critico  torinese per eccellenza, Luigi Carluccio, che pone la personale su un piano di  confronto con le altre mostre del momento e scrive: “Un solo dipinto ad olio e quattordici  disegni (…) ci fanno conoscere per la prima volta con una mostra personale  Pietro Lerda. Si entra nel medesimo cerchio dell’interpretazione esistenziale  dei problemi implicati nella presenza stessa dell'uomo in mezzo al creato  esteso ormai su dimensioni interplanetarie, che caratterizza altre esposizioni  attualmente aperte a Torino: Guerreschi alla Bussola, Crippa alla Narciso, Merz  alla Gallerie di Notizie. Tra tante interpretazioni, questa, di Lerda, é la più  delicata direi soffiata e fragile, sia sul piano strumentale che sul piano  concettuale, giacchè mi pare che rifletta su misura a piccolo raggio una  riduzione letteraria dei termini di tale problema più che la testimonianza  diretta e viva di un mondo vivo, nelle sue infinite, dunque, probabilità di  essere e manifestarsi”. (Gazzetta del  Popolo, 4 maggio 1962) .
 
 La personale, a conti fatti, è  stata soprattutto una mostra difficile, lontana dagli schemi di un’esposizione,  anche per il fatto che fosse quasi interamente costituita da disegni e con un  solo olio su tela.
 
 Insomma, le opere ritenute importanti, quelle che di norma  sono i dipinti su tela, qui  non  figuravano, la preponderanza andava alla produzione grafica. L’identità di  questa personale non poteva dunque essere confrontata su uno stesso ordine di  problemi con altre esposizioni, già per l’implicita scelta, che poi sarà una  vocazione contenuta negli esordi e confermata in seguito, di una dimensione  diaristica, entro la quale Lerda concepiva l’atto artistico. Se egli  privilegiava dar conto su fogli di carta i pensieri su una umanità in  “trappola” era perché meglio si confaceva la visione della fragilità  dell’esistenza. Egli come pittore rifuggiva da note altisonanti, da opere che  fossero le pietre miliari di un percorso di ricerca. Il suo spirito arguto  conosceva troppo bene le insidie di un  ragionare per verità assiomatiche. Non cercava il capolavoro, perché non era quello  a cui era interessato. E se la pittura, l’arte, s’identificava in un risultato  che doveva essere perentorio, deciso e concluso, e la critica consacrarlo,  tanto valeva scegliere altre strade per Lerda su cui potesse liberamente  continuare a esercitare una ricerca dell’intuizione immediata, della libertà di  sconfinare su contraddizioni irrisolvibili. Del resto cercare il capolavoro era  come scolpire le parole incontrovertibili, irrigidire la verità, avere un’idea  fissa “…fondamento della dittatura”.
 
 Critico fermissimo, linguista e  sociologico del linguaggio, egli ha amato e usato la parola come strumento di  mediazione di contenuti artistici e come occasione di comunicazione fin dalle  prime conferenze albesi del 1950, le letture e le introduzioni a Nizza e poi  gli interventi redazionali per i programmi televisivi e radiofonici, fino al  ruolo di responsabile culturale all’USIS. Era consapevole di quanto scriveva  Jorge Luis Borges: “Nessuno può articolare una sillaba che non sia piena di  tenerezze e di terrori; che non sia in uno di quei linguaggi, il nome poderoso  di un dio. Parlare è incorrere in tautologie”. Non era così per Lerda, che  considerava il lavoro d’artista come l’equivalente di un lavorio sulla genesi  infinita di un’opera che è aperta a continue sollecitazioni ed evoluzioni, come  ebbe a dire Umberto Eco nel suo famoso volume “Opera Aperta” (1962). Del Lerda  acuto vivisezionatore del linguaggio e abile “scovatore” delle presunte  tautologie nascoste tra le pieghe, c’è un illuminante articolo da lui scritto  per “L’Informazione industriale”, quindicinale dell’Unione Industriale di  Torino, del 30 maggio 1971 in cui la sua indagine non risparmia nessuno,  passando al vaglio sia i moduli linguistici fumosi della critica d’arte sia i  resoconti parlamentari, smascherando il linguaggio dei politici, dei  giornalisti e dei sociologici.
 
 Ivana Mulatero
 
 |